<

Lavorare altrove: Il punto di vista di un filosofo sul lavoro decentralizzato

Lavorare altrove: il punto di vista di un filosofo sul lavoro decentralizzato

Recentemente mi è capitato di passare qualche giorno in un hotel nelle Dolomiti, l’AMA Stay di San Vigilio di Marebbe in provincia di Bolzano, e sono rimasto colpito dal fatto che una grande porzione dell’hotel è riservata a un’area per il coworking. Mi sono chiesto cosa potesse spingere un imprenditore del settore alberghiero ad investire in postazioni di lavoro, lounge per incontri creativi, sale conferenze e così via invece che aumentare il numero delle camere a disposizione visto che, nei periodi di punta, l’hotel registra il tutto esaurito. Ho avuto l’occasione di parlarne con Markus Promberger, il giovane CEO, che ha motivato la sua scelta con la convinzione che tra le tendenze più significative nel modo di lavorare presente e ancor più del futuro vi siano le workation (lavoro+vacanza), il lavoro ibrido e il nomadismo digitale [1], tendenze che vuole sostenere e contribuire a diffondere anche attraverso la struttura del suo hotel.
Questo dialogo mi ha fatto tornare alla mente la questione del rapporto lavoro/vita privata che ho affrontato in un
precedente articolo nel mio blog. In esso osservavo che: “Per molti negli ultimi due anni [eravamo appena usciti dalla pandemia e dai conseguenti lockdown] ‘andare al lavoro’ ha significato spostarsi nella camera degli ospiti o su un tavolo in sala trasformato in stazione di lavoro. Per altri riprendere il lavoro in presenza ha significato accorgersi del tempo investito in spostamenti e attese per andare al lavoro sottraendolo alla vita domestica. Ma se la pandemia ci ha insegnato qualcosa, è che sopravvivere a tempi incerti spesso richiede di tornare alle origini: alle persone e i valori essenziali senza i quali non possiamo vivere. Ecco perché oggi è più che mai attuale la domanda: come faccio a mettere un confine tra lavoro e vita domestica per evitare che il primo eroda il secondo?”.

Le nuove generazioni stanno spostando l’attenzione da ‘equilibrio tra lavoro e vita privata’ a ‘integrazione tra lavoro e vita privata’. Qual è la differenza? Mentre equilibrio indica condizioni opposte e in qualche modo contrastanti che vengono rese compatibili rinunciando a qualcosa dall’una e dall’altra parte, integrazione suggerisce una fusione teoricamente perfetta tra lavoro e vita. Questo porta le nuove generazioni a scegliere i propri stili di vita e solo in seguito a trovare posti e ambienti di lavoro adatti a tali stili.

Hanno fatto loro le parole di un poeta molto amato dalla mia generazione: “Quanto c’è di buono in un giorno? Dipende da quanto bene lo vivi." [2]
Le workation e le altre forme di lavoro citate, che d’ora in poi chiamerò ‘lavoro decentralizzato’, mettono in evidenza il concetto di fluidità dei confini tra lavoro e tempo libero e sollevano questioni significative sulla nostra percezione del lavoro e sulla sua integrazione nella vita personale. Tradizionalmente, il lavoro è stato percepito come un'attività confinata in spazi e orari definiti, separata dalla vita personale e familiare. Questa separazione ha contribuito a stabilire confini chiari tra identità professionale e identità personale. Con il lavoro decentralizzato, questi confini si confondono: il lavoro può essere svolto in qualsiasi luogo, spesso in ambienti associati al relax e al tempo libero, come le località di vacanza. Questa fusione può avere effetti liberatori, permettendo alle persone di integrare maggiormente i propri interessi personali e professionali, favorendo una maggiore espressione dell'identità personale nel lavoro. Ad esempio, lavorare in un contesto rilassante o stimolante può aumentare la creatività e la soddisfazione lavorativa, consentendo alle persone di sentirsi più complete e autorealizzate. D'altra parte, la fluidità dei confini tra lavoro e tempo libero può portare a sfide significative da un punto di vista filosofico sulla definizione e percezione del sé.
La filosofa Hannah Arendt, nella sua opera
Vita activa La condizione umana [3], approfondisce la distinzione tra ‘lavoro’ (‘labor’), ‘opera’ (‘work’) e ‘azione’ (action), tre attività fondamentali che caratterizzano la condizione umana.
Arendt definisce lavoro come l'attività legata alla sopravvivenza biologica dell'uomo e al soddisfacimento dei bisogni di base. Il lavoro è la prima attività e corrisponde alla condizione dell'uomo come
animal laborans, ovvero colui che provvede al proprio mantenimento o a quello altrui. Il lavoro non lascia alcuna traccia di sé, dato che il suo risultato si dissolve nel consumo quasi immediato del prodotto stesso. Inoltre, ogni lavoro viene sempre ricominciato di nuovo, perché non si può sfuggire al ciclo produzione-consumo se si vuol sopravvivere. Il lavoro è collegato alla dimensione della necessità in quanto l'energia che l'uomo sprigiona e consuma lavorando serve per la conservazione della vita stessa. È un'attività incessante, che si ripete ciclicamente e che è strettamente legata al corpo e ai suoi ritmi. Secondo Arendt "Il lavoro è la sola attività che sia intrinsecamente legata al fatto che gli uomini sono viventi". Questo tipo di attività non crea nulla durevole e spesso non permette l'espressione del sé o la crescita personale.
Opera, secondo Arendt, è l'attività di creazione e fabbricazione, attraverso la quale gli uomini costruiscono il mondo e danno forma a oggetti duraturi.

È attraverso l’operare che l'umanità esprime se stessa e lascia un'impronta duratura sul mondo, distinguendo così gli uomini dagli altri esseri viventi. L'opera di cui parla qui Arendt è l'opera delle mani dell'uomo, diversa dal lavoro dei corpi.

L'operare è l'attività tipica di quello che Arendt definisce
homo faber. L'homo faber fa, opera e si distingue dall'animal laborans che lavora e si mescola con il suo prodotto. L'homo faber fabbrica la molteplicità delle cose che costituisce l'ambiente in cui l'essere umano vive, il mondo artificiale che lo circonda. Perciò non si tratta più di beni di consumo ma oggetti d'uso che garantiscono all'uomo una certa stabilità e benessere che non potrebbe altrimenti ottenere con il semplice lavoro. Arendt afferma: "Il mondo degli uomini è costruito dagli uomini stessi e ha una durata infinitamente più lunga delle attività individuali di cui è fatto". L’operare rappresenta quindi un'opportunità per l'autorealizzazione e l'espressione creativa.
Infine, l'azione è l'attività con la quale gli uomini entrano in rapporto tra loro, senza la mediazione di cose naturali o artificiali, ma è anche una manifestazione della pluralità del mondo umano, ovvero il fatto che sulla Terra ci siano gli uomini e non un solo uomo. Questa pluralità è specificamente la condizione di ogni vita attiva. L’azione e il discorso sono fondativi dello spazio delle relazioni umane. “Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano” [4]. È l'azione che rende possibile la libertà e la pluralità umana, consentendo agli individui di mostrarsi agli altri come unici e distinti: è l'unico processo degli affari umani che non possiamo affidare a nessun altro che non a noi stessi.
Al riguardo del lavoro decentralizzato, queste distinzioni di Arendt offrono spunti di riflessione sulla qualità e sul significato del lavoro nella contemporaneità. Sottolineo qui due punti: il movimento dal lavoro all’opera e la vita attiva anche in un contesto di lavoro remoto.
Primo punto. Hannah Arendt evidenzia la netta distinzione tra ‘lavoro’ e ‘opera’ nell’antica Grecia dove esisteva una chiara separazione tra gli artigiani e gli schiavi. Gli artigiani, paradigmi dell’operare, sfruttando le proprie competenze manuali, erano capaci di creare oggetti nuovi, contribuendo così a una forma durevole di espressione personale e culturale. Invece, gli schiavi, legati e relegati nel solo lavoro, erano impiegati nelle attività necessarie per mantenere se stessi e i loro padroni, attività che erano puramente funzionali e prive di un lascito duraturo. Per questo nell'antichità, il lavoro era frequentemente oggetto di disprezzo, principalmente perché si riteneva che ostacolasse la realizzazione completa dell'individuo, intrappolandolo in compiti che non favorivano lo sviluppo dei suoi aspetti più creativi e perdurabili. Era comune la percezione che chi opera e chi lavora fossero fondamentalmente diversi: il primo lasciava un'impronta nel mondo, il secondo si limitava a sopravvivere.
La narrazione è stata per centinaia di anni che il ‘lavoro’ (con tutta la sua costellazione di significati legati alla fatica, alla durezza, al sacrificio) non sia solo una necessità economica, ma anche un veicolo per l'etica, la morale, e l'autorealizzazione, sottolineandone il suo valore intrinseco. Valga ad esempio quanto sottolinea Max Weber in
L'etica protestante e lo spirito del capitalismo [5] e cioè che il collegamento tra duro lavoro e moralità è centrale nell'etica protestante: il lavoro assiduo non sia visto soltanto come fine materiale, ma anche come manifestazioni della propria moralità e della propria elezione spirituale, un dovere religioso, un segno di virtù. Una deformazione, non certo disinteressata, di questa visione è quella per cui una/un giovane dovrebbe essere felice di fare un duro apprendistato, possibilmente non pagato, per imparare un mestiere.
Le nuove generazioni stanno rifiutando questa narrazione, anche perché spesso svolgono compiti e lavori che nessuno delle generazioni precedenti è in grado di insegnare loro. Bank of America definisce la Generazione Z, ovvero i nati tra il 1996 e il 2010 la generazione più dirompente di sempre [6]. “La Gen Z, la prima nativa digitale, sta affacciandosi ora nel mondo del lavoro. Questo costringerà le altre generazioni ad adattarsi a loro, non viceversa”, afferma Haim Israel, uno dei responsabili di BofA Global Research, aggiungendo che nove su dieci degli appartenenti a questa generazione vive nelle economie emergenti, sulle quali le generazioni precedenti hanno scarse, se non nulle, competenze da insegnare.

L'opportunità di trascorrere tempo di qualità con le persone cui tengono e di vivere esperienze interessanti insieme fa parte della definizione di ‘lusso’ [7] della Generazione Z e questo influenza pesantemente le scelte lavorative, gli orari giornalieri e la loro decisione su dove vivere.

Questo porta ad un cambio di prospettiva, di narrazione appunto: il proprio operare (non certo lavorare nel senso indicato da Arendt e inteso dai greci antichi) non deve essere finalizzato al procurarsi i mezzi per vivere nel lusso in un momento successivo ma essere esso stesso, direttamente, parte integrante della creazione del lusso venendo svolto in modi e luoghi che permettano trascorrere tempo e condividere esperienze con le persone rilevanti per la propria vita mentre si opera, non prima o dopo. Il lavoro decentralizzato e in particolar modo le workation rientrano appieno in questa prospettiva e non c’è da stupirsi se diverranno una scelta sempre più diffusa.
Secondo punto. Per gli antichi Greci, la ‘vita activa’ era associata principalmente alla politica e alle azioni pubbliche. I filosofi greci, specialmente Aristotele, valorizzavano molto la vita attiva, vista soprattutto come vita politica, in cui gli individui partecipavano attivamente agli affari della città-stato (polis) e nella quale potevano realizzare pienamente la loro natura razionale e sociale.
Per Arendt la vita activa è l'attività per eccellenza che distingue gli esseri umani, poiché coinvolge la libertà e la capacità di iniziare qualcosa di nuovo, di agire in modo che non sia solo una reazione alle necessità o alle costrizioni. Essa rappresenta il potere degli esseri umani di agire congiuntamente, di influenzare il corso degli eventi e di creare realtà collettive.
Sia per i greci che per Arendt vita activa si esplica soprattutto ‘in presenza’ come relazioni tra individui che condividono non solo un fine ma anche uno spazio, quale la città appunto. Ma implica anche una sorta di continuità di tale relazione: ogni cambiamento, miglioramento, azione politica necessita che un gruppo di persone lo porti avanti nel tempo, sino alla sua realizzazione. Vita activa sembra perciò strettamente legato a delle relazioni solide che durano nel tempo. Come può conciliarsi con il lavoro decentralizzato e in particolare con il nomadismo informatico? Sono forse individui isolati e soli che non hanno dimensione ‘politica’? Lo sarebbero se non ci fosse la tecnologia. Ora posso mantenere relazioni costanti con chiunque in qualunque luogo si trovi purché ci sia internet. Quindi posso esercitare la mia azione anche se sono sulle Dolomiti e le mie relazioni si trovano a Seattle, su una spiaggia in Sardegna o Londra. Ma questo è banale, non vale nemmeno la pena di sottolinearlo. Quello che invece è interessante è che il lavoro decentralizzato può aumentare e promuovere le relazioni e fungere anche da ‘impollinatore’ di idee. Questa riflessione me l’ha suggerita Markus, il già citato CEO dell’hotel AMA Stay durante la nostra conversazione. Mi ha infatti detto che la struttura e i suoi spazi di coworking sono accessibili tanto ai lavoratori decentralizzati che decidono di soggiornare nell’hotel, quanto agli smart worker del posto. Questa condivisione porta un arricchimento reciproco, dà un significato nuovo all’idea di ‘fare rete’. Cambia profondamente il punto di vista sui lavoratori decentralizzati che vengono solitamente narrati come privilegiati egoisti, isolati e autoreferenziati che si permettono di lavorare tenendo i piedi in ammollo in piscina.

Al contrario. Se cresceranno e si moltiplicheranno i luoghi come quello dell’AMA Stay dove locali e ‘nomadi’ possono trovarsi a lavorare fianco a fianco, chi si muove potrà assorbire esperienze e idee cresciute in un luogo diverso dal proprio, arricchirle con le proprie e condividerle con chi, al momento, è stanziale, in un dialogo faccia a faccia che porta emozioni e sincerità oltre che a razionalità in un modo in cui nessuna call può al momento tramettere.

I locali avranno così un’apertura su mondi diversi e apriranno il proprio mondo che, trasportato dai nomadi, arriverà lontano, permettendo a nuove idee germogliare e a loro volta viaggiare. Questo grazie ad una combinazione di tecnologia e di dialogo umano occhi negli occhi. Certo, servono strutture adatte come questa, ma in fondo è un piccolo investimento. Immagina cosa potrebbe portare, immagina “all the people sharing all the world. You may say I'm a dreamer. But I'm not the only one”.

[1] Il termine ‘workation’ nasce dall’unione di ‘work’ (lavoro) e ‘vacation’ (vacanza) e si riferisce a una modalità lavorativa in cui i professionisti combinano lavoro e relax in una località di vacanze o lontana dal loro ambiente di lavoro abituale. Questo permette di lavorare a distanza, spesso sfruttando le tecnologie digitali, mentre si gode contemporaneamente di un contesto rilassante o stimolante, tipico di una vacanza. L'idea è quella di fondere la produttività lavorativa con il piacere di un ambiente diverso, spesso più gratificante rispetto agli uffici tradizionali.
Il lavoro ibrido è un modello organizzativo che combina il lavoro da remoto e il lavoro in ufficio. I dipendenti possono alternare tra lavorare da casa, da altri luoghi esterni, e dal luogo fisico di lavoro dell'azienda. Questa flessibilità permette di bilanciare meglio le esigenze personali con quelle lavorative, potenziando la soddisfazione e la produttività dei lavoratori. Il lavoro ibrido si è diffuso particolarmente a seguito della pandemia di COVID-19, che ha spinto molte aziende a ripensare l'organizzazione del lavoro per adattarsi a nuove realtà e aspettative.
Il nomadismo digitale è uno stile di vita adottato da individui che utilizzano le tecnologie digitali per lavorare a distanza mentre viaggiano continuamente. I nomadi digitali sono spesso freelance, imprenditori o dipendenti di aziende che permettono il lavoro remoto completo, e sfruttano questa opportunità per vivere in diverse località, spesso in diversi paesi, esplorando nuove culture e ambienti mentre mantengono la loro carriera. Questo stile di vita richiede una buona connessione internet e la capacità di adattarsi continuamente a nuovi ambienti e modalità di lavoro.
[2] Shel Silverstein,
How many, how much dalla raccolta A light in the attic
[3] Hannah Arendt,
Vita activa, Bompiani, Milano 1997
[4]
Ibid., p. 130
[5] Max Weber,
L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Einaudi, Torino 1991
[6] Bank of America,
Gen Z’s Financial Priorities, Barriers & The Path Forward, 2022
[7] SDA Bocconi,
I quattro valori fondamentali della Gen Z, 2024